Oggi è il 13 febbraio, proprio oggi undici anni or sono l’ UNESCO ha designato questa giornata quale la “World Radio Day“, un riconoscimento attribuitole un anno più tardi anche dall’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Un riconoscimento questo di certo importante per il primo vero medium di massa della storia che ha preso piede tra gli anni ’20 ed i ’30 del XX secolo. Poi la storica sentenza n. 202 del 28 luglio 1976 con cui la Corte Costituzionale ammise la legittimità delle trasmissioni in ambito locale che ruppe il monopolio della radio di Stato, dando la stura all’attuale panorama radiofonico. Una designazione arrivata a quattordici anni di distanza dalla creazione del primo strumento che oggi conosciamo come social network che, per la cronaca, fu SixDegrees dell’avvocato statunitense Andrew Weinreich nel 1997 ed a sei dalla creatura targata Zuckerberg del 2004.
Ma come spesso accade il risvolto della medaglia è dietro l’angolo! Tra poco sarà l’otto marzo e lo sarà anche per gli anni a venire come lo è stato dal 1908, ma ciò non impedirà i femminicidi quotidiani. Il rischio quindi è proprio questo, quello di avere un 13 febbraio che solo nominalmente apprezza la radio… ma nei fatti?
E come sempre accade, in Italia ancor di più, anche questa è un’anomalia culturale della serie “come può un qualcosa nata per gioco assumere le connotazioni di una vera azienda?” La radio nell’immaginario del vulgo, quella areale in special modo, rimane sospesa in un limbo a metà tra stereotipi e preconcetti che vogliono deliberatamente rifarsi alle origini “simil-goliardiche” che molte di esse hanno avuto all’epoca della loro fondazione nella seconda metà degli anni ’70. Ma questo accade per lo più nella mentalità provinciale, lo ribadiamo ancora, la stessa che oggigiorno si reputa tecnologica ed al passo coi tempi per un semplice account sui social.
Il paradosso, quello vero, è che essa parla di tutto ma poco o nulla di sè stessa, quindi quale occasione migliore per poter parlare di radio se non nel giorno a lei dedicato e sul sito ufficiale di una radio con all’attivo appena quarantantacinque anni di attività ininterrotta nel settore? E allora facciamolo!
La nostra esperienza di radio privata (o locale come preferite) risale al 1977, a ridosso della storica sentenza del 1976, improntata da subito al principio di legalità in virtù di una denuncia di inizio attività che si usava produrre presso la rete delle locali stazioni dei Carabinieri, a cui seguì la registrazione della testata giornalistica presso il tribunale territorialmente competente.
La radio che nell’immaginario provincialistico collettivo vuole essere ancora oggi un gioco, o nel migliore dei casi un passatempo, è però finita nel 1990 e, dopo trentadue anni, quelli che lo hanno capito davvero si contano ancora sulle dita di una mano. Eppure anche distrattamente qualcuno avrà sentito parlare negli ultimi decenni di legge Mammì prima e di quella Gasparri dopo, ecco è in quel preciso momento che la radio ha mutato la sua pelle, costretta per la sua stessa sopravvivenza a trasformarsi in azienda. Ma prima si è dovuta “dotare” di una concessione che la autorizzasse al prosieguo delle trasmissioni e prima ancora munirsi dei requisiti necessari a conseguirla, non basterebbe una giornata intera a descriverne l’iter per ottenerla. Ma all’epoca lo Stato che aveva promesso di pianificare, quindi riservare le frequenze ai legittimi assegnatari, aveva ancora qualche barlume di credibilità e noi ci avevamo creduto.
Per rendere meglio l’idea è come se voi steste pagando annualmente i tributi per l’occupazione del suolo pubblico nell’area antistante al vostro bar dove posizionare i tavoli ma poi il bar dirimpettaio, vostro concorrente, piazza i suoi di tavoli proprio lì, limitando o annullando di fatto lo spazio legittimamente a voi assegnato perchè il comune assegnatario ha omesso di apporre le strisce che delimitano gli spazi a voi riservati. La verità è che le radio da diversi decenni pagano ogni anno ben due di queste tasse, una a gennaio l’altra ad ottobre, continuando però ad essere di fatto interferite illegalmente, ma come poc’anzi detto siamo in Italia per cui dal 1990 ad oggi l’uso delle frequenze si paga ma la loro assegnazione ancora non è stata attuata.
Ma non è finita certo qui! Il percorso tutto in salita ci fa imbattere, agli albori del secondo millennio, nella legge 66/2001 costringendoci dopo un quarto di secolo dalla fondazione all’assunzione di due dipendenti per poter proseguire nell’attività radiofonica. Che voi sappiate a quale altro settore è stata “riservata” una legge analoga?
La radio è musica si sa, questo non è un mistero, ma un mistero è sicuramente la sua esclusione dall’indotto dell’industria musicale! Ed il discorso è sicuramente più calzante per quelle areali. La radio acquista la musica, la radio paga per la trasmissione della musica acquistata a più di un organizzazione (diritti d’autore, diritti connessi), ma ad essa non viene riconosciuto il ruolo “diffusivo” quindi “commerciale” che le spetta di diritto essendo, senza ombra di dubbio, tra i suoi mezzi pubblicitari per antonomasia. Tutto ciò mentre la casella di posta elettronica viene oberata da e-mail di società private di promozione musicale ed etichette minori che propongono, spesso con modalità che rasentano lo stalking, discutibili artisti di musica emergente per la quale ne traggono i loro giusti profitti.
Riassumendo quindi la musica del mainstream, quella famosa insomma, viene destinata dalle majors musicali (le etichette importanti) ad un ristretto numeri di radio, per lo più nazionali, mentre le areali devono acquistarle e pagarci le spese per diffonderle nel mentre non le viene riconosciuto il suo ruolo commerciale che le spetta dall’indotto dell’industria discografica. Nel contempo viene ossessionata da telefonate ed email da chi spinge, pretendendolo a gratis ma guadagnondoci sopra a sua volta, la programmazione di artisti emergenti spesso radiofonicamente improponibili, su cui comunque la radio dovrebbe pagarci comunque i diritti d’autore e quelli connessi.
Ma se credete che sia finita qui vi sbagliate di grosso. Nel 2017 con il DPR 146/2017 lo stesso stato che ha imposto nel 1990 la regolamentazione del settore assegnando le concessioni ma non le frequenze, riscuotendone però due volte all’anno le tasse per il loro uso, sebbene interferite, lo stesso Stato che ha imposto nel 2001 l’assunzione di due impiegati per poter proseguire nello svolgimento dell’attività radiofonica, ha stabilito che per l’assegnazione dei contributi statali, spesso unica fonte di sostegno per il crollo del mercato pubblicitario a causa della grave crisi economica, sia obbligatoria l’assunzione di almeno un giornalista in organico. Questo ultimo provvedimento rappresenta un serio problema di sostentamento per quei soggetti radiofonici impossibilitati a tale tipo di assunzione, ma soprattutto instaura un pregiudizievole trattamento di disparità senza precedenti. Da ciò ne consegue che i soggetti che operano in contesti economici più vantaggiosi (per i motivi più disparati), potendo permettersi tale tipologia di assunzione, hanno anche diritto al percepimento di detti contributi. Nessuna pietà è stata mostrata neanche in piena crisi pandemica quando questo stato discriminatorio non ha cessato i suoi effetti assegnando le campagne anti covid solo a chi era in linea con il DPR in questione. Della serie “piove sul bagnato”
Al termine di questa breve disamina in cui abbiano condensato 45 anni di storia radiofonica dal punto di vista delle radio areali veniamo ai giorni nostri ed al caro bollette che si sta abbattendo come una mannaia sul mondo produttivo, ovviamente anche sul nostro. La radio per le sue peculiarità operative è paragonabile a tutti gli effetti ad una fabbrica che produce H24, sette giorni su sette rientrando di diritto tra le attività energivore di cui tanto si parla oggi. Ma è palese che non può permettersi il lusso di adottare le stesse misure prese in ambito industriale con l’interruzione della produzione a tempi migliori, la radio NON può permetterselo questo vantaggio!
A questo punto non ci rimaneva altro che trattare degli argomenti enti pubblici territoriali e comparto commerciale locale, ma le cose da scrivere in merito sono tali e tante che ci riserviamo ad un articolo successivo incentrato sul tema.
In chiusura un pensiero a tutti gli operatori del settore che pare non siano toccati da determinate problematiche e che hanno trovato il tempo di festeggiare come se nulla fosse il “World Radio Day” dedicandogli un aforisma napoletano che si perde nella notte dei tempi “‘O sazio nun crére a ‘o diùno”.
[Raffaele Acampora]